I cani nella grande guerra: l’infamia e la propaganda

L’11 novembre 1918 segna la resa della Germania imperiale e la fine della prima guerra mondiale.
Noi concludiamo la pubblicazione degli articoli dedicati alla presenza dei cani in questa strage di uomini e di animali che fu la grande guerra, cercando di abbozzare una risposta alla domanda: “il rapporto tra gli uomini e gli animali cambiò dopo aver vissuto, per anni,  fianco a fianco nella prospettiva quotidiana della morte?”

”Detering se ne va, bestemmiando: ‘Vorrei un po’ sapere che colpa hanno loro’. Di lì a poco si avvicina a noi, e con voce vibrata, quasi solenne, afferma: ‘Ve lo dico io, l’infamia più grande è che si faccia fare la guerra anche alle bestie’.” E’ una delle frasi che spesso vengono citate per dimostrare quale intenso rapporto si sarebbe venuto a creare tra i soldati e gli animali durante il conflitto: in realtà Detering ha un ruolo preciso nell’opera di Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale: è il contadino che non pensa ad altro che ai suoi cavalli, alla sua fattoria e alla moglie. Dunque, un personaggio singolare, non certo di primo piano, che parla e pensa come chi con gli animali ha vissuto fino al giorno in cui si è arruolato ed ha il ruolo di una comparsa.

Certo la promiscuità quotidiana tra uomini e animali avrà raggiunto in qualche caso “livelli di intensità inimmaginabili per qualità e quantità rispetto a tutte le guerre precedenti” (L.Fabi, Guerra bestiale. Uomini e animali nella grande guerra, Persico), ma in realtà la celebrazione di cani, gatti e cavalli fu soprattutto un fatto privato, per lo più legato o ai contadini che scoprivano una dimensione  dell’animale differente da quella a cui erano abituati o agli ufficiali della ricca borghesia che ritrovavano un’empatia del tempo di pace.

Per il resto, la celebrazione degli animali fu, prima di tutto, un fatto di propaganda politica: infatti, “la celebrazione degli animali eroi e patriottici serviva a diffondere il consenso alla guerra tra adulti e bambini.” (G.Guazzaloca, Storie di vita, di guerra, d’amicizia: uomini e animali nel 1917, Eunomia, 2017).

C’è un volumetto – ‘Gli animali alla guerra’ pubblicato nel 1916 dal volontario Giulio Caprin – che più di altri condensa stereotipi, luoghi comuni e propaganda. Vi si legge, ad esempio, che “tedeschi e austriaci erano porci, bertucce, sorci di fogna, facevano ragionamenti da gorilla, i loro aerei erano mostruosi cervi volanti. Viceversa gli animali nobili, intelligenti, dignitosi sapevano riconoscere la bontà degli italiani: il gatto italiano era indipendente e non piaceva ai governi polizieschi, i cani redenti erano quelli abbandonati dagli austriaci e accolti con pietà dai nostri soldati. E sapevano essere generosi, gli animali italiani: il nostro cane ha un’anima pietosa e umana (…) se scopre in un burrone un ferito che si lamenta non sta a distinguere se geme in italiano o in tedesco, e abbaia lo stesso nel modo convenuto. “ (in G.Guazzaloca,cit.)

In sostanza, è davvero difficile accogliere l’idea che dalla grande guerra sia nata una nuova sensibilità collettiva, di maggior rispetto verso gli animali. E’ molto più probabile, invece, che, come sempre nella storia dell’umanità, anche nella prima guerra mondiale le cose non siano andate molto diversamente da come andarono nei decenni successivi, quando “i più crudeli crimini di guerra (…) derivano dai meccanismi consolidati dello sfruttamento animale” (L.Fabi, cit.).  Dopo il primo conflitto mondiale, il percorso di crudeltà fu anzi tutto in discesa, tanto che sarà dalle pratiche di uccisione di massa degli animali -esseri inferiori e dunque discriminabili e sopprimibili- che trarrà origine “l’impersonale ed efficiente crudeltà” dei “campi di sterminio” destinati ad uomini che altri uomini considereranno inferiori, discriminabili e dunque sopprimibili. (C.Patterson, Un’eterna Treblinka. Il massacro degli animali e l’Olocausto)

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