Grazie all’orecchio…siamo compassionevoli

Grazie all’orecchio…siamo compassionevoli

La compassione – ossia la capacità di riconoscere la sofferenza degli altri, di provare empatia e vicinanza e di agire per alleviarla, tollerando l’angoscia che il suo riconoscimento provoca – non è una prerogativa della specie umana. Nel 2020, ad esempio, Erik T. Frank, Marten Wehrhan e Karl Eduard Linsenmair della Julius-Maximilians-Universität di Würzburg, in Germania hanno scoperto che le formiche Megaponera Analis, diffuse nell’Africa sub-sahariana, negli scontri con le termiti subiscono spesso lesioni come la perdita delle zampe: le compagne se ne accorgono e le formiche ferite vengono spesso riportate al nido e curate con leccamenti intensi, che consentono un recupero nell’80% dei casi.

In un bel articolo disponibile sul sito di e-learning FormazioneContinuaInPsicologia.it, Paul Gilbert, professore di psicologia clinica presso l’Università di Derby, analizza le dimensioni neurofisiologiche, psicologiche e sociali della compassione, emozione che è considerata tra le componenti fondamentali del comportamento pro-sociale.

Ci sono vari approcci al tema e Gilbert ricorda che, ad esempio, l’approccio evoluzionista cerca le origini della compassione nell’evoluzione delle motivazioni e dei comportamenti premurosi: l’individuazione delle motivazioni permette, a sua volta, l’identificazione dei sistemi (tra cui quelli fisiologici) che rendono possibile la cura-compassione.  Di fatto, lo stimolo della compassione è un segnale di sofferenza, angoscia o bisogno fondamentale (la ricerca di Frank, ad esempio, mette in evidenza che solo le formiche ferite non gravemente ottengono aiuto dalle compagne, stimolate all’assistenza dal fatto che quelle con ferite leggere rimangono ferme e piegano le zampe rimanenti per facilitare il trasporto, mentre quelle ferite gravemente si dimenano e non sono aiutate, ndr) che, se non soddisfatto, crea sofferenza e che innesca una motivazione e un’azione per cercare di fare qualcosa al riguardo. Si tratta, dice Gilbert, di un algoritmo molto antico, che è alla base anche della compassione come mentalità sociale, la quale produce non solo comportamenti compassionevoli verso gli altri, ma anche l’auto-compassione e l’apertura alla compassione degli altri.

Gli ormoni ossitocina e vasopressina hanno svolto ruoli vitali nell’evoluzione del comportamento di cura, ma nel caso dell’assistenza (quello delle formiche di Frank, ndr), i ricercatori hanno attirato l’attenzione pure sugli adattamenti del sistema nervoso centrale e autonomo, adattamenti che sono avvenuti anche grazie all’evoluzione dell’orecchio medio, il quale consente il rilevamento di suoni aerei ad alta frequenza (cioè, suoni nella frequenza della voce umana). Dunque, lo sviluppo dell’orecchio medio dei mammiferi (e quindi sia dell’uomo che del cane, ndr) è stato fondamentale nella storia evolutiva della socialità, dato che, anche quando l’ambiente acustico è dominato da suoni a bassa frequenza, ha permesso alla madre di mangiare, allattare e ascoltare allo stesso tempo vocalizzazioni conspecifiche. In sostanza, negli essere umani (ma anche nel cane, ndr), la fisiologia dell’orecchio medio sembra che sia stata guidata dalla coevoluzione per la cura, che si sia radicata nella comunicazione sociale ed abbia fornito (all’uomo come al cane, ndr) una competenza essenziale per l’evoluzione del linguaggio e della comunicazione.

In breve, è anche grazie all’evoluzione dell’orecchio medio che due mammiferi (uomo e cane) hanno potuto sviluppare la capacità di ascoltare i reciproci segnali di sofferenza, angoscia e bisogno, una comprensione che innesca una motivazione e un’azione per cercare di fare qualcosa per alleviarli, rendendo così possibile la cura-compassione uno dell’altro.

Accade a casa, tutti i giorni, col proprio cane e, a maggior ragione, accade in rifugio, tutti i giorni, con i cani rifiutati dalla società, il cui dolore fisico ed emozionale induce a una compassione intensa e prolungata, che bisogna saper gestire dal punto di vista psicologico ed emotivo per non incorrere in quella sindrome da burnout che non di rado colpisce chi si occupa della cura e della sofferenza degli animali.